Roma. Prima che scoppi, il calcio si prende in giro da solo. Arriverà l’unica condanna che si aspetta per zittire i forcaioli e lasciare il pallone rotolare come sempre. E arrostire al sole di un sole equivoco: velato e poco sincero, ma forte sulla pelle fino a bruciarla. La scoperta di questi giorni è che il calcio è un affare. Lo sapevano tutti, ora si stupiscono: si chiedono perché e percome ci fossero dirigenti di una grande squadra con amicizie in Federazione e all’Associazione arbitri. Non si danno pace e chiedono di cambiare tutto.
Di trovare un Arbitro per sistemare gli arbitri. Con i telefonini spenti, per non essere fraintesi, le teste pensanti del pallone non toccate dalle intercettazioni e dalle battute da osteria hanno preso una decisione: al posto di Pierluigi Pairetto, all’Uefa il nuovo rappresentante è Pierluigi Collina. Cioè il miglior arbitro della storia d’Italia, il più apprezzato, il più conosciuto. Una scelta di garanzia. E’ vero, però è la stessa persona che il calcio ha fatto fuori perché da arbitro aveva uno sponsor, lo stesso di una squadra importante e allora non era opportuno tenerlo in gioco. Adesso Collina va bene, perché le telefonate registrate e lo scandalo hanno fatto tornare in voga i fan del professionista arbitrale, quello che se viene pagato per quanto vale, se può avere uno sponsor suo, se può campare del pallone, non ha bisogno di farsi comprare.
E’ qui che si prende in giro il mondo del pallone: vive nell’illusione che la questione morale sia legata alla decisione tra professionismo e dilettantismo. Ogni volta che succede qualcosa si oscilla tra una parte e l’altra. Allora: s’indaga sul doping e spunta la teoria che “il calcio dovrebbe tornare ai veri valori dello sport”. Poi l’Italia viene fatta fuori dalla Champions League e cambia tutto: “Bisogna accelerare sul professionismo. Le squadre devono essere più competitive, delle aziende complete, devono studiare strategie, fare lobby, pressare le istituzioni”.
I due esempi (diversi) della Gea e del Chievo
Luciano Moggi avrebbe fatto pressioni sul designatore Pairetto, il quale avrebbe fatto pressioni su una serie di arbitri. L’idea che se Pairetto fosse stato un professionista del pallone non si sarebbe lasciato prendere dalla tentazione non regge. Primo perché Pairetto guadagnava come un professionista e di fatto svolgeva il ruolo di designatore arbitrale a tempo pieno. Secondo perché non è detto che, se avesse guadagnato milioni di euro, non avrebbe accettato di piegarsi alle iniziative di un dirigente di una squadra. Ammesso che poi sia successo.
Il problema del calcio è lo stesso che ha la politica del dopo Tangentopoli: se funzionano di più i dilettanti, quelli che arrivano da altri mondi, gente di successo nelle imprese, nello spettacolo, nella cultura che decide di provare l’avventura politica, o se il Parlamento e il governo debba essere fatto di politici di professione: esperti nell’arte della mediazione o dell’attacco e ipoteticamente incapaci di svolgere una professione altra dal cazzeggio in Transatlantico. Visto che la politica non si è decisa, non lo fa neppure il mondo del pallone. Ora sono tutti grandi censori della Gea, la società di procura sportiva dei figli di papà: Alessandro Moggi, Chiara Geronzi, Giuseppe De Mita, Francesca Tanzi, Riccardo Talleri. Si scandalizzano al pensiero che in mano alla Gea ci fossero tanti giocatori e allenatori. Ma nessuno ha pensato che quella società era l’espressione massima del professionismo che il sistema insegue: trova la squadra che paga di più il suo assistito, media per lui nelle operazioni di mercato, gli fornisce uno sponsor personale, crea il contatto per uno spot. Le denunce di questi giorni raccontano metodi di gestione della società oltre ogni limite: se sarà accertato, la Gea sparirà. Il problema è che sparirà anche in caso quelle denunce siano balle. Succederà in nome e per conto della teoria del calcio come gioco, senza pressioni, senza interessi personali. Dicono sia colpa dei procuratori se i ragazzini che giocano nelle squadrette di borgata o di paese diventano avidi e smaniosi di arrivare.
E’ un’altra ipocrisia: i procuratori hanno avuto un potere crescente perché i giocatori – anche i bambini appena cresciuti – gliel’hanno chiesto e perché i club volevano gestirsi come aziende. Però visto che il prodotto era il risultato di una prestazione di un gruppo di calciatori, questi hanno alzato il prezzo. Normale dinamica aziendale, spacciata come scandalo non appena qualcuno è andato fuori giri. Ennesima dimostrazione che il gioco di rincorrersi tra dilettantismo e professionismo è il miglior modo per lasciare tutto com’è.
Federazione e Lega si comportano allo stesso modo. Invocano manager in grado di gestire l’“industria pallone” come una multinazionale, ma poi non li vogliono perché nello sport non si possono applicare le tecniche economico-finanziarie. Allontanati quelli che potrebbero aiutare il calcio perché estranei, i professionisti del pallone combattono tra loro. Poi, però, la gran parte delle squadre ogni estate non ce la fa a iscriversi, allora si chiede aiuto alla politica. Un nuovo decreto salva-calcio per certificare che i club sono aziende, ma i loro dirigenti non sono manager.
Nel ’79, il Perugia voleva comprare Paolo Rossi: il presidente era Franco D’Attoma, comproprietario della ditta di abbigliamento sportivo Ellesse. D’Attoma non aveva i soldi per prendere Rossi, si fece aiutare dalla famiglia Ponte, che attraverso un pastificio aveva fatto miliardi. I Ponte in cambio chiesero di diventare sponsor della squadra. Ma all’epoca gli sponsor erano vietati: la Figc minacciò multe, la Ellesse s’inventò una linea di maglie nuova, la linea Ponte, che aveva lo stesso logo del pastificio. Aggirata la norma, senza multe e senza sanzioni. La Federazione da allora aprì alle sponsorizzazioni e oggi pretende che le squadre facciano un passo indietro. “Bisogna tornare ai valori veri dello sport”. Si fanno esempi, come il Chievo, che è una squadra simpatica, ma è anche un grande supermarket, dove i calciatori vengono acquistati per essere rivenduti e dove il proprietario si è autosponsorizzato per trarre un vantaggio per la sua azienda di dolciumi.
Campedelli ha fatto bene. Così come ha fatto bene Zamparini che s’è comprato il Palermo quasi a zero, c’ha investito fino a farlo tornare a essere un club che conta e in più ha aumentato la presenza in Sicilia dei suoi ipermercati. Cioè fa giustamente affari attraverso il pallone, ma poi si pone come garante della vera etica sportiva, come capofila dei piccoli club che si contrappongono allo strapotere delle grandi che invece vorrebbero la Superlega. Se la suonano e se la cantano da soli.
Attaccano Moggi ora. Ci risiamo: si prendono in giro da soli. Cercano soluzioni prima che si capisca bene che cosa succederà nei prossimi giorni, quando magari questo scandalo sarà superato da uno più grande, tipo un altro calcioscommesse. Nel frattempo Franco Carraro si è dimesso, alla Figc tocca ad Abete. Ma il mondo del pallone ha già deciso il dopo. Vuole Gianni Rivera: perché è stato un grande uomo di calcio che è uscito dal calcio. Sì, è un professionista del calcio che è entrato in politica come dilettante, poi è diventato un professionista della politica e vuole rientrare nel calcio da dilettante.
source: Il Foglio
vendredi, mai 12, 2006
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